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La rivolta dei "Non si parte": quando Acate divenne ostaggio di 40 "teste calde"

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La rivolta dei "Non si parte": quando Acate divenne ostaggio di  40 "teste calde"

I protagonisti, quasi quaranta cittadini di tutte le estrazioni sociali, non sono più in vita, ma delle loro gesta, “a volte eroiche a volte donchisciottesche”, la memoria di molti anziani conserva il ricordo di ruoli, azioni e perfino qualche gag.
La partecipazione di Acate alla rivolta dei “Non si parte”, tra il dicembre del 1944 e il gennaio del 1945, non ebbe la virulenza di Naro, dove fu ucciso un carabiniere, o di Comiso, dove un comitato di salute pubblica costituì una velleitaria quanto effimera Repubblica, ma si nutrì della bile di alcuni suggeritori dei centri viciniori.
Gli incitamenti alla disobbedienza ebbero facile presa non solo sui giovani che strapparono le cartoline precetto, sia pure divisi da opposte ideologie, ma anche tra gli imprenditori, i contadini, gli artigiani e i tanti senza lavoro. A quel tempo il paese contava 6500 abitanti e il tasso di analfabetismo era alto. Non fu difficile, pertanto, per i propagandisti “acculturati”, provenienti dalla provincia, convincere gli acatesi che smaniosi di rompere gli indugi e creare il clima ideale per un’insurrezione.
Le tre Autorità costituite - il sindaco Vincenzo Paladino, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Palermo e il parroco Ignazio Di Marco - godevano del rispetto che in quegli anni ogni triade si conquistava, ma non si esclude – ha scritto don Rosario Di Martino (deceduto lo scorso anno) in un’interessante ricerca sull’argomento pubblicata nel 2002 - che verso i rappresentanti dell’Arma si nutrisse anche una certa diffidenza legata allo stato di miseria in cui si viveva o a certe illazioni sulla loro correttezza morale.
Dai verbali degli interrogatori è emerso, infatti, che alla vigilia della fatidica data del 7 gennaio 1945 (il giorno dell’assalto alla caserma ubicata al Castello) il sottufficiale, originario di Melilli, si rese conto che con soli cinque militari non poteva fronteggiare una folla inferocita e far ritrovare vuoto e indifeso il luogo sarebbe stata la decisione più saggia, sia pure sofferta.
Due personaggi Giuseppe Stracquadaino, presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci (di idee socialiste) e Lucio Cannata, un elettricista (agli antipodi nelle convinzioni), si diedero da fare per salvaguardare l’incolumità del maresciallo, il quale dichiarò, a sua autodifesa, che al momento dell’insurrezione stava presidiando piazza Libertà (nella foto d’epoca) con due carabinieri.
L’ora X scattò alle undici, quando una folla di forsennati muniti di armi da guerra, rinvenute per le campagne del territorio, irruppe nella caserma portando via di tutto: fucili, viveri, oggetti di casermaggio. Una voce, inascoltata, si levò per ammonire gli assalitori sulle gravi conseguenze dell’atto, ma fu sommersa da fischi e scherni. I più spavaldi avrebbero voluto bruciare la caserma con il suo archivio, ma il truce intento fu scoraggiato da qualche testa più ragionevole.
Il Cannata – racconta sempre don Di Martino – avrebbe compiuto anche un gesto “eroico-cavalleresco” tranquillizzando la moglie di un militare, la quale con il suo corpo faceva da scudo al marito rincorso dagli esagitati. Non solo. Dopo avere odiato la guerra, le divise e la Benemerita, alcuni, indossando pastrani sgualciti lasciati dai tedeschi, ne presero il posto volendo mantenere l’ordine.
Qualcuno si ricorda di quel “corsaro”, con una sciabola sproporzionata alla sua statura; di un altro rivoltoso, soprannominato “Garibaldi”, fasciato di munizioni, che brandiva un moschetto arrugginito; di un altro ancora che non trovando di meglio si era vestito con l’abito di un musicante. Si pavoneggiavano perché erano entrati nella storia conquistando una caserma vuota.
Non molto lontani dalla caserma erano ubicati l’Ufficio delle Imposte di Consumo, quello Statistico Economico dell’Agricoltura e il Dazio, che subirono la stessa sorte. I locali furono devastati e i documenti bruciati. Il raid si concluse con l’obiettivo più ambito: l’Esattoria Comunale. Distruggendo carteggi e registri i rivoltosi volevano sanare a modo loro le posizioni con i tributi.
Così terminava il giorno più lungo dell’Acate novecentesca. Per altri tre giorni ancora i gestori provvisori dell’ordine pubblico, con in testa l’autoproclamatosi sindaco Francesco Interi, un tipografo, esercitarono il potere che si erano conquistati sul campo, ma il desiderio di ritornare alla normalità si faceva più impellente tra la popolazione.
Saranno i fanti della divisione “Sabauda”, con i loro blindati, a riportare l’ordine in paese. Gli arresti furono eseguiti senza alcuna indulgenza e addirittura con una certa brutalità. Gli interrogatori si svolsero al Castello e alcuni, nonostante prove inconfutabili delle loro responsabilità, non si capacitavano delle accuse: insurrezione a mano armata, devastazione e saccheggio, uso abusivo di sigilli appartenenti alla stazione dell’Arma.
Alcuni furono immediatamente ristretti nelle carceri di Palermo e di Catania, altri avviati al soggiorno obbligato a Ustica.
“Giovani inesperti e avventati hanno dolorosamente pagato di persona un fatale errore, mentre gli istigatori e i veri responsabili sono rimasti indisturbati”; così scrisse – nell’ aprile del 1946 - un folto gruppo di mamme chiedendo clemenza per i loro figli, detenuti da quindici mesi in attesa del processo.
Pochi tra i protagonisti furono riconosciuti estranei ai fatti contestati e liberati al termine del dibattimento. Per la maggioranza il “colpo di spugna” arriverà con la cosiddetta amnistia Togliatti, alla quale seguiranno altri provvedimenti che amplieranno la casistica dei crimini condonabili.
Emanuele Ferrera

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