Cultura
Acate, il "rito" della vendemmia: quella poesia fatta di gesti, odori e sapori
Il gergo della vendemmia, “a virigna” come ancora si dice ad Acate, è quasi ignorato dalle nuove generazioni, ma è rimasto nella nicchia della lingua del territorio, patrimonio degli anziani, che prima della meccanizzazione su larga scala partecipavano ad ogni sua fase. Un “rito” sempre identico a se stesso, di cui gli odori, i sapori, le frasi propiziatorie scandivano ogni momento: dalla raccolta dell’uva, “a racina”, al riempimento delle botti.
In un saggio frutto di un’interessante ricerca il professore Attilio Leone, ne analizzava nel 1992 la terminologia.
In ogni quartiere del paese, e nell’immediata periferia, sorgevano “i palummienti” (i palmenti), nei quali affluivano lunghe carovane di carretti con l’uva da pigiare. “Aria, “ tinedda”, “cuonzu”, “chianca, erano gli elementi principali degli opifici. Quest’ultima era una trave larga circa 70 cm e lunga 8-10 metri, che da un’estremità era fissata al muro perimetrale del palmento da perni d’acciaio, all’interno della quale si trovava la madrevita, detta “scrufina”. Una grande vite di legno, fissata alla base su un’enorme pietra, vi si avvitava e gli addetti, azionando una manovella, riuscivano a sollevarla.
La moderna torchiatura (in una macchina “s’abbucca” l’uva ed escono da due condotte il mosto e le vinacce,) agli esordi non convinceva i contadini locali, i quali rilevavano : “A vinazza nesci viva viva e u mustu veni tuttu maccu”.
Ma quanti erano “i vignaturi” del tempo che fu? In ogni posto di lavoro, detto “antu”, lavoravano 9 addetti, i quali prima di affrontare la durissima giornata di fatica, consumavano una colazione con peperoni e pomodori arrostiti, “a pìvula”.
Dai filari l’uva raccolta riempiva “i criveddi” o i “cancieddi”, che “i carriaturi” con asini, muli e cavalli trasportavano nei palmenti.
Generalmente l’uva da pigiare ogni giorno non superava i 40 carichi. Qui, mentre uno dei “pistaturi” la teneva stretta con due pale di legno, un altro la pressava con i piedi.
Intono alle 10, 30, veniva concessa loro una piccola sosta con pane e sarde salate; un’altra pausa era alle 14 con insalata di pomodoro e cipolla, mentre il pasto principale si svolgeva alle 19, questa volta di pasta con patate, fave o fagioli o “ a “sucu luoncu”. Il vino offerto dal proprietario era chiamato “pitroliu”.
Dopo la torchiatura della pasta i uva, il mosto che rimaneva nei “tinieddi” era “bbagghiulatu”, cioè filtrato, e non mancava chi richiedeva un seconda torchiatura, insoddisfatto della quantità della prima.
Il mosto era “cunzzinatu” ai proprietari, utilizzando una “quartara” di metallo che usciva grondante dal tino, accompagnata dalla voce del prelevatore che contava i riempimenti, aggiungendo nomi di santi o varie facezie.
Non rimaneva che riempire la botte. Il mastro bottaio la puliva a dovere e “a mpurtiddava”, rimettendo lo sportello alla fecciaia: subito dopo “ a nsurfarava”, a scopo disinfettante, ripetendo l’operazione ogni due- tre mesi.
Qualche botte si presentava “lasca”, cioè allentata per il caldo e il disuso, e allora era necessario “fari a stufa”, versarvi cioè del mosto ben caldo per farla gonfiare.
La botte non andava turata (continuando la fermentazione) fino a San Martino; al posto del tappo si poneva sul foro un oggetto bucherellato di argilla, che avrebbe impedito l’ingresso dei topi. A Vittoria e Comiso esso era chiamato “palummedda o scutedda”, ad Acate “rannulera”.
Grossi quantitativi di mosto erano acquistati da commercianti vittoriesi chiamati “spiculanti”, i quali trattavano con i “sinzali” locali: Alfio Fisichella, Luigi Alessandrello, Luigi Carrubba, Emanuele Aulino, Salvatore Di Falco. Altri commercianti, come Giuseppe Incardona di Vittoria e Vincenzo Sallemi di Comiso acquistavano “a fezza”.
Alla “virigna” acatese l’avvocato Santi Giovanni Alessandrello, che vive e lavora a Cologno Monzese, ha dedicato nel 1997 una bellissima poesia in vernacolo nella quale cita alcuni dei protagonisti: “Turi u capurali”, “Vanni ‘u stuortu”, Peppi ‘u cugghituri”. “Sono rimasti nella mia memoria, svegliata al gusto di un bicchiere di vino, viva il progresso!”.
Emanuele Ferrera